STORIA E CULTURA
Il Logudoro
Il Logudoro è la regione storico geografica della Sardegna nord occidentale, che diede il nome al Regno giudicale di Torres. Alcune interpretazioni fanno infatti risalire l’origine del toponimo proprio al giudicato: Logu de Torres, che ha avuto anche Ardara come sede del regno.
Per altri studiosi il termine Logudoro va invece ricondotto alle grandi estensioni di coltivazioni di grano che storicamente erano presenti nelle ampie pianure del territorio. Tesi più approfondite parlano anche di un toponimo legato alla popolazione (Loukouidonénsioi) residente a Luguido, (villaggio fortificato romano presso Madonna di Castro), oppure ad una origine nuragica.
Uno studio etimologico proporrebbe infatti l’esistenza del vocabolo nuragico UR che porterebbe al nome Locum Ur e quindi Logu d’Ur e in seguito Logu d’Ore.
La storia
L'uomo ha abitato intensamente il territorio del Logudoro fin dai tempi più remoti, come dimostrano testimonianze antiche di quasi ottomila anni, nelle grotte naturali che caratterizzano i costoni rocciosi. Culla di una civiltà del neolitico, evoluta e caratterizzata dalla produzione di pregevoli vasi e considerata fra le più interessanti di tutto il Mediterraneo. L’archeologia ha dimostrato la vocazione di quest’area come luogo di confine e allo stesso tempo di incontro di genti diverse; i ricchi giacimenti minerari di rame, ferro, piombo, se da una parte determinarono la fitta rete di insediamenti di età nuragica, dall’altra favorirono certamente i rapporti commerciali con popoli che giungevano fin dalle più lontane regioni del Mediterraneo.
La romanizzazione segna un apporto fondamentale per la storia del territorio alle spalle di Olbia, attraversato dalle strade per Hafa, per la colonia di Turris Libisonis e per Tibula, inserito in un quadro insediativo tradizionale servito da una viabilità che assicurava il rapido collegamento con le città portuali. Attraverso la romanizzazione si spiega la parlata romanza dei nostri giorni, il logudorese, ampiamente diffuso nei vari strati della popolazione. E poi l’età bizantina ed il medioevo dei Giudicati, che vide sorgere la Reggia di Ardara e la chiesa palatina di Nostra Signora del Regno: è il momento in cui nascono le numerose chiese vescovili suffraganee dell’ Arcivescovo Turritano; fiorisce una civiltà rinnovata affidata agli ordini monastici, che costellano di splendide fabbriche romaniche il territorio.
Il paesaggio storico si arricchisce anche durante l’età spagnola di nuovi segni della cultura, in particolare in campo ecclesiastico: sono i colori dei retabli e le modanature di gusto gotico-aragonese a richiamarcelo, con sullo sfondo le tradizioni, le feste, la devozione popolare. Ancora le altane neoclassiche ozieresi ci ricordano che questa dura terra si apre infine alle leggiadre strutture dell’Ottocento.
Per altri studiosi il termine Logudoro va invece ricondotto alle grandi estensioni di coltivazioni di grano che storicamente erano presenti nelle ampie pianure del territorio. Tesi più approfondite parlano anche di un toponimo legato alla popolazione (Loukouidonénsioi) residente a Luguido, (villaggio fortificato romano presso Madonna di Castro), oppure ad una origine nuragica.
Uno studio etimologico proporrebbe infatti l’esistenza del vocabolo nuragico UR che porterebbe al nome Locum Ur e quindi Logu d’Ur e in seguito Logu d’Ore.
La storia
L'uomo ha abitato intensamente il territorio del Logudoro fin dai tempi più remoti, come dimostrano testimonianze antiche di quasi ottomila anni, nelle grotte naturali che caratterizzano i costoni rocciosi. Culla di una civiltà del neolitico, evoluta e caratterizzata dalla produzione di pregevoli vasi e considerata fra le più interessanti di tutto il Mediterraneo. L’archeologia ha dimostrato la vocazione di quest’area come luogo di confine e allo stesso tempo di incontro di genti diverse; i ricchi giacimenti minerari di rame, ferro, piombo, se da una parte determinarono la fitta rete di insediamenti di età nuragica, dall’altra favorirono certamente i rapporti commerciali con popoli che giungevano fin dalle più lontane regioni del Mediterraneo.
La romanizzazione segna un apporto fondamentale per la storia del territorio alle spalle di Olbia, attraversato dalle strade per Hafa, per la colonia di Turris Libisonis e per Tibula, inserito in un quadro insediativo tradizionale servito da una viabilità che assicurava il rapido collegamento con le città portuali. Attraverso la romanizzazione si spiega la parlata romanza dei nostri giorni, il logudorese, ampiamente diffuso nei vari strati della popolazione. E poi l’età bizantina ed il medioevo dei Giudicati, che vide sorgere la Reggia di Ardara e la chiesa palatina di Nostra Signora del Regno: è il momento in cui nascono le numerose chiese vescovili suffraganee dell’ Arcivescovo Turritano; fiorisce una civiltà rinnovata affidata agli ordini monastici, che costellano di splendide fabbriche romaniche il territorio.
Il paesaggio storico si arricchisce anche durante l’età spagnola di nuovi segni della cultura, in particolare in campo ecclesiastico: sono i colori dei retabli e le modanature di gusto gotico-aragonese a richiamarcelo, con sullo sfondo le tradizioni, le feste, la devozione popolare. Ancora le altane neoclassiche ozieresi ci ricordano che questa dura terra si apre infine alle leggiadre strutture dell’Ottocento.
LA CULTURA
Il Logudoro rappresenta per la Sardegna un riferimento innanzitutto per la lingua. (Sardo_logudorese). Attorno alla lingua ruota però un giacimento culturale ed etnico costituito da poesie, canti, riti, tradizioni, costumi.
Non è un caso che il simbolo del Premio Ozieri di Letteratura Sarda (www.bibliotechelogudoro.it), l’istituzione guida per l’espressione letteraria del popolo sardo, riprenda la stella che un uomo evoluto del neolitico ha disegnato nel vaso pisside trovato nelle Grotte di San Michele di Ozieri.
In quei preziosi sinnos , l’antico avo logudorese di 5.000 anni fa, si interroga sul significato dell’universo, della terra, della vita e della morte. Fissava nel contempo la sua coscienza identitaria di uomo legato ad un territorio e quindi ad un cultura. Da allora il Logudoro ha rappresentato terra di gente che ha saputo essere omine . Massai, grandi allevatori, cavalieri, alti prelati, contadini, pastori, maestri artigiani, ma anche poeti, improvvisatori, cantadores. Come non ricordare Francesco Ignazio Mannu, l’autore dell’inno della sarda rivoluzione Su patroutu sardu a sos feudatarios, considerato il vero inno dei sardi e denominato la Marsigliese sarda. Fra i tanti poeti Antonio Cubeddu, ideatore nel 1896 della prima moderna gara poetica improvvisata in pubblico. E quindi Tonino Ledda, creatore nel 1956 del Premio Ozieri di Poesia e lo scrittore Francesco Masala (Francesco Masala). Alle donne del Logudoro si deve in particolare la finezza e l’eleganza dei costumi e della cucina. Il pane, su pane fine o Spianata, sfoglia sottile e bianca simbolo del Logudoro e quindi i dolci, una delicata sorpresa anche per i palati più raffinati. Non da meno vanno ricordati i manufatti in pietra, legno e ferro de sos mastros locali che hanno contribuito a caratterizzare un’originale architettura e a far radicare sapienti tradizioni come quella del coltello di Pattada. Ad un certo Mastru Andria Sanna vengono attribuite le opere del MAESTRO DI OZIERI, un artigiano-artista che nel ‘500 ha dipinto retabli andati ad impreziosire diverse chiese del Logudoro con richiami alla scuola spagnola e nord europea.
Il Logudoro può essere considerato come una delle regioni storiche della Sardegna che presenta maggiori particolarità e - anche per questo - può offrire al visitatore maggiori attrattive. La presenza delle comunità nel territorio è stata influenzata quindi, fin dalle origini, da aspetti geografici e orografici, a tal punto da condizionare, oltre che le scelte produttive, le opzioni di vita, lo sviluppo delle tradizioni, la dislocazione degli insediamenti. Questa regione, almeno in riferimento ai periodi più antichi, è stata definita "un grande museo a cielo aperto".
Di fronte al visitatore si mostrano, talvolta improvvise alla curva di un sentiero, altre volte troneggianti nell'ampia pianura o in vista dall'alto di uno sperone roccioso, le testimonianze delle civiltà più antiche: dolmens, menhirs, domus de janas, insediamenti nuragici, tombe dei giganti.
Questa è anche la regione di una delle più singolari manifestazioni codificate della presenza dell'uomo nella preistoria sarda: la Cultura di San Michele, altrimenti detta di Ozieri. Ha caratterizzato la storia del territorio fin dall'antichità una decisa propensione ai contatti esterni; questa era dovuta alla sua produttività, ma anche ad una collocazione geografica che ne faceva area di passaggio. Passaggio tra le pianure agricole del Logudoro centrale ed orientale e le regioni galluresi poste ad oriente - e in particolare il porto di Olbia, Terranova - o collegamento per quelle più settentrionali, attraverso i corridoi di Castro o di Bisarcio. Più intensa e ricca di esiti è stata la presenza romana (secc. III a.C.-V d.C.) che tante testimonianze ha lasciato in diversi campi, da quello economico, a quello sociale, a quello militare. Anche la presenza bizantina (secc. VI-IX), oggi viene vista sotto un'ottica diversa, più circostanziata, grazie agli scavi archeologici che sono in corso nel territorio e che rivelano un interessamento che si spinge al potenziamento delle fortificazioni e ad opere di infrastruttura come quelle viarie.
Di fronte al visitatore si mostrano, talvolta improvvise alla curva di un sentiero, altre volte troneggianti nell'ampia pianura o in vista dall'alto di uno sperone roccioso, le testimonianze delle civiltà più antiche: dolmens, menhirs, domus de janas, insediamenti nuragici, tombe dei giganti.
Questa è anche la regione di una delle più singolari manifestazioni codificate della presenza dell'uomo nella preistoria sarda: la Cultura di San Michele, altrimenti detta di Ozieri. Ha caratterizzato la storia del territorio fin dall'antichità una decisa propensione ai contatti esterni; questa era dovuta alla sua produttività, ma anche ad una collocazione geografica che ne faceva area di passaggio. Passaggio tra le pianure agricole del Logudoro centrale ed orientale e le regioni galluresi poste ad oriente - e in particolare il porto di Olbia, Terranova - o collegamento per quelle più settentrionali, attraverso i corridoi di Castro o di Bisarcio. Più intensa e ricca di esiti è stata la presenza romana (secc. III a.C.-V d.C.) che tante testimonianze ha lasciato in diversi campi, da quello economico, a quello sociale, a quello militare. Anche la presenza bizantina (secc. VI-IX), oggi viene vista sotto un'ottica diversa, più circostanziata, grazie agli scavi archeologici che sono in corso nel territorio e che rivelano un interessamento che si spinge al potenziamento delle fortificazioni e ad opere di infrastruttura come quelle viarie.
Il territorio del Logudoro, caratterizzato da una piana alluvionale solcata dalla vasta rete idrografica del rio Mannu-Coghinas e collegata ai naturali sbocchi al mare, è stato frequentato dall’uomo fin da età remota: ne sono testimonianza alcuni strumenti in selce esposti nel Museo di Ozieri, che possono essere attribuiti genericamente al Paleolitico. Sono noti finora centinaia di insediamenti preistorici, documentati da ritrovamenti ceramici e litici provenienti da siti all’aperto, dalle grotte, dagli ipogei sepolcrali che, scavati nella roccia dall’uomo, costituiscono un importante indicatore indiretto di uno stanziamento umano.
Le grotte, che si aprono nelle bancate calcaree di Ozieri, Nughedu San Nicolò e Mores, hanno restituito le più antiche testimonianze della frequentazione umana del territorio. Infatti ad un momento compreso fra la fine del Neolitico antico e il Neolitico medio (5000-4500 a.C.) va riferito un anellone in pietra proveniente dalla grotta di Bariles di Ozieri: si tratta di un oggetto di prestigio e di ornamento che trova confronti in Sardegna (grotta di Filiestru di Mara) e in stazioni neolitiche coeve dell’Italia.
La distribuzione geografica dei ritrovamenti e soprattutto degli ipogei ha condotto alla individuazione di particolari scelte d’insediamento. I nuclei insediativi, costituiti da più siti vicini fra loro, ma dispersi sul territorio, sono di tipo accentrato nelle aree calcaree e si concentrano in zone prospicienti le pianure solcate dai corsi d’acqua, in particolare presso quelli maggiori, lungo le cui direttrici si allungano, mentre si rarefanno nelle zone pedemontane granitiche. Si tratta di insediamenti in grotta e all’aperto di comunità stanziate stabilmente in aree permissive per l’insorgenza dell’economia produttiva, basata sull’agricoltura e l’allevamento, mentre il fiume costituiva altresì il mezzo di diffusione di prodotti e di idee. Sono note nel territorio grotte e ripari, che possono aver avuto un utilizzo abitativo per le caratteristiche morfologiche e per la tipologia dei materiali rinvenuti, e resti di strutture in pietra di capanne a pianta circolare e quadrangolare, tutte da approfondire. Le caratteristiche degli abitati sono tuttavia meglio identificabili nelle architetture scavate negli ipogei funerari che riproducono la casa dei viventi per motivi legati a profonde convinzioni religiose. Attraverso questa documentazione possiamo individuare, pur tenendo conto delle modificazioni e riutilizzazioni avvenute fino in tempi recenti, un tipo di abitazione circolare ed uno rettangolare, con ambienti generalmente disposti in successione, oppure a sviluppo centripeto, cruciforme o a "T" su un vano di disimpegno, che documentano l’esistenza di un progetto architettonico che presiedeva alla costruzione della casa. Compaiono inoltre elementi architettonici quali gli zoccoli, i travi di angolo, il trave di colmo del tetto, il soffitto spiovente, la porta con architrave, stipiti, incastri e scorniciature per la chiusura, il focolare circolare al centro dell’ambiente, i gradini di ingresso, i porticati esterni. Si configurano abitazioni semplici anche con un solo ambiente rispetto a case articolate in più vani con implicazioni connesse a un diverso status sociale dei componenti la comunità, e a tempi diversi di costruzione.
Si evidenziano vari tipi di abitazione che documentano l’importanza che aveva la casa per queste comunità sedentarie, ma anche i cambiamenti che questa subiva nel tempo a seguito dei mutamenti di cultura.
Questo suggestivo aspetto delle culture neolitiche è particolarmente significativo in questo territorio. È nota la grotta sepolcrale di San Michele di Ozieri, in cui sono evidenti pratiche di culto per i defunti con l’offerta, entro le nicchie, di vasi dalle forme varie e raffinate che contenevano resti di pasto, finemente decorati con complesse simbologie che affondano le radici nelle ideologie e nei rituali legati alle attività dell’agricoltura e dell’allevamento, nonché la deposizione di idoli in pietra di Dea Madre che dovevano accompagnare il defunto nel mondo ultraterreno.
A profonde motivazioni religiose risponde inoltre l’escavazione nelle rocce calcaree, trachitiche e granitiche dei numerosi ipogei che punteggiano anche questo territorio. Chiamate dal popolo spesso "domus de janas" - "case delle fate o delle streghe", secondo l’immaginario collettivo - documentano l’impegno della comunità di assicurare al defunto la rinascita deponendolo nel grembo della terra.
Queste riproducono la casa e sono decorate con i simboli della rinascita, scolpiti, incisi o dipinti: le corna e le protomi che rimandano al toro, emblema della forza e della fecondità; la "falsa porta", che indica il passaggio al mondo ultraterreno; la pittura rossa, simbolo del sangue e della fertilità.
All’interno di alcuni ipogei, posti in posizione eminente, e che presentano elementi riconducibili alla sfera cultuale si svolgevano forse complessi rituali. Erano forse le sepolture di capi-sciamani che esercitavano un potere politico - religioso e godevano di prestigio presso la comunità. Particolari tecnico - architettonici presenti negli ipogei inclinano a ritenere che vi fossero maestranze specializzate attive in più insediamenti di questo territorio.
Nel territorio del Logudoro è nota la presenza di giacimenti metalliferi, principalmente di rame. Scarsi sono tuttavia gli elementi, soprattutto scorie di fusione, che documentano la pratica dell’attività metallurgica nella fase più antica dell’Età dei metalli, nota come Età del rame o calcolitico (III millennio a.C.). Le testimonianze monumentali di questa età a noi pervenute, muraglie, dolmen e menhir (in bretone rispettivamente "pietra-tavola" e "pietra fitta"), rientrano in quel vasto movimento culturale, caratterizzato da costruzioni a grandi massi, e perciò detto megalitismo, che coinvolge l’Europa da occidente ad oriente e non solo.
Di queste popolazioni bellicose, di cui ci sono note armi in pietra dette asce-martello provenienti dai territori di Ozieri, conosciamo solo indirettamente gli insediamenti che ricalcano solo in parte gli abitati precedenti.
Questi sono concentrati in aree elevate, talvolta fortificati e collegati con vie di transumanza, note fino ai giorni nostri, che costituiscono pertanto le preesistenze dei percorsi protostorici e storici. Anche le abitazioni ci sono note da scarsi resti di strutture absidate, dai ripari sotto-roccia nelle aree granitiche, dai sepolcri che imitano la casa: ipogei a pianta rettangolare, preceduti da lunghi corridoi, anche costruiti con lastroni, e dolmen a pianta rettangolare con lastrone di copertura piano, raramente a doppio spiovente, e a pianta circolare.
Queste varie tipologie sono forse indicative di momenti cronologici e di influssi culturali diversi giunti in questo territorio, che fa da cerniera fra a Gallura, il Marghine e il Dorgalese, dove il megalitismo è molto diffuso.
Di queste popolazioni a prevalente economia pastorale sono note soprattutto aree sacro-sepolcrali, che occupano luoghi alti, vere e proprie montagne sacre in cui si evidenzia uno stretto rapporto con la natura e in cui a fatica si distingue la mano dell’uomo.
Compaiono muraglie che recingono come un limes religioso l’area sacra, penetrabili solo attraverso passaggi obbligati, che sovrasta orridi dirupi. All’interno si configurano circoli megalitici o si snodano percorsi rituali di oscuro significato segnati da menhir in allineamento, in coppia, in raggruppamento, da rocce a nicchie e a coppelle che conducono a sepolcri dolmenici venerati.
Sui lastroni di copertura di questi compaiono sia all’interno che all’esterno, ma anche talvolta sulla parete, caratteristiche coppelle, testimonianza forse di una religione cosmica praticata da queste popolazioni pastorali abituate a seguire gli astri nel loro vagare al seguito delle greggi.
Lungo questi sentieri della transumanza, indicati spesso dai menhir, si trovano i ripari istoriati in cui compaiono i segni dei loro rituali: antropomorfi itifallici dipinti con ocra rossa, che attendono a danze orgiastiche, forse propiziatorie della fecondità, nel riparo di Luzzanas di Ozieri.
Di questa civiltà, che abbraccia un ampio spazio temporale compreso fra l’Età del bronzo medio e l’Età del ferro (XVI-VI sec. a.C.), conosciamo nel territorio centinaia di nuraghi o complessi nuragici.
Di questi monumenti, ben mimetizzati nel paesaggio perché costruiti con la pietra locale, individuiamo costruzioni semplici, costituite da un’unica torre a tronco di cono; complesse con l’aggiunta di più torri variamente articolate; miste, con avancorpi inglobati nella roccia, attraversati da corridoi, che costituiscono la base di elevati a tholos.
È una civiltà caratterizzata dall’affermarsi di una "elite" di costruttori, di grandi architetti che piegano questo elemento a tutte le esigenze costruttive, in elevato, in estensione e nelle viscere della terra, inventori e depositari delle leggi che regolano questo atto sacro.
Gli importanti ripostigli di bronzi rinvenuti nel territorio individuano un articolato strumentario, composto di seghe, asce, picconi, cunei, catene, ecc. che potevano agevolare la l’estrazione del materiale lapideo e la costruzione di questi monumenti mediante l’utilizzo di impalcature lignee e di macchine semplici per il sollevamento e posizionamento dei massi.
I nuraghi si dispongono ai bordi degli altopiani, in zone pedemontane intorno alla pianura, lungo il corso dei fiumi, con particolari concentrazioni su opposte sponde, intorno ad un’area mineraria. Si evidenzia una strategia di insediamento di una società complessa e stratificata, volta al controllo delle vie di comunicazione e delle aree produttive, con il nuraghe, dimora e sede del potere, il villaggio, centro abitato in cui si esercitano le attività produttive, e con le aree sacro-sepolcrali e sacre nettamente distinte.
Le aree sacro-sepolcrali sono costituite dalle tombe di giganti, indicate così dalla fantasia popolare per la grandezza delle strutture. Le tombe di giganti, in numero da uno a quattro, sono distanti dal nuraghe e afferiscono talvolta a più monumenti.
Le tombe più antiche presentano una struttura megalitica, evidente sia nella camera sepolcrale sia nei bracci che definiscono lo spazio semicircolare ai lati dell’ingresso (esedra) sia infine nel muro che recinge l’area come un confine sacro.
L’ingresso alla camera è chiuso da una lastra rettangolare superiormente convessa, scorniciata nel contorno e traversata da un listello in rilievo (stele centinata) con alla base una piccola apertura arcuata. Questa ha i precedenti cultuali nella "falsa-porta" degli ipogei neo-eneolitici ad indicare l’ingresso al mondo dei morti e formali nella lastra di chiusura del dolmen di Sa Coveccada di Mores. Particolare interesse rivestono la stele della tomba di giganti di Luzzanas, esposta nel museo di Ozieri, che reca i segni dei culti ipogeici e megalitici.
Le tombe più recenti, costruite con pietre disposte a filari di tecnica nuragica, presentano sopra l’ingresso un concio trapezoidale con tre cavità destinate ad accogliere tre betilini conici di carattere cultuale, ma di oscuro significato.
Le fonti tardo - antiche riferiscono che negli spazi antistanti queste tombe si svolgevano riti per propiziare la salute e la fecondità.
Le fonti tardo-antiche riferiscono di pratiche religiose legate al culto delle acque che si svolgevano nei santuari in particolari circostanze con grande partecipazione degli antichi Sardi. Tali culti sono documentati nel territorio del Logudoro dal rinvenimento di bronzi votivi effettuati nei pozzi o fonti, costruiti nel nuraghe o nelle immediate vicinanze oppure inseriti, in aree elevate, in complessi architettonici di valenza sacra. Sono costruzioni realizzate con un’accurata tecnica costruttiva in pietra anche di diverso colore, in cui erano inseriti talvolta elementi architettonici anche zoomorfi e lunghe spade votive di bronzo a coronamento del tetto.Si individuano "rotonde", piccoli ambienti circolari con panchina e bacile in pietra al centro, talvolta inseriti in isolati articolati in più vani; fonti di struttura circolare o trapezoidale precedute da un atrio e/o vestibolo percorso da una canaletta; pozzi circolari raggiungibili mediante scale con atri/vestiboli panchinati attraversati da canaletta; sacello circolare con testa taurin inserita nella struttura.
Spesso mostrano un singolare percorso rituale che va dalla sorgente di acqua perenne, dove forse avvenivano particolari cerimonie purificatorie. I rituali dovevano essere rivolti ad una divinità ctonia, che dalle viscere della terra dispensava la vita, a cui si rivolgevano i devoti per invocare fertilità e salute nel corso di festività annuali.
Sono noti in questo territorio giacimenti minerari di rame, piombo-argentifero e ferro, sfruttati nell’antichità. Le aree minerarie sono interessate da una fitta concentrazione di insediamenti nuragici, localizzati soprattutto tra Ozieri, Nughedu San Nicolò e Pattada, dove sono in corso ricerche.
Antichi ritrovamenti a Tula di pozzetti circolari con notevoli tracce di combustione sono stati riferiti ad una fonderia. Talenti e "panelle", forme funzionali per la conservazione, il commercio e il trasporto del metallo da fondere, sono stati rinvenuti interi e talvolta in frammenti entro grossi vasi coperti in ripostigli ricavati nella muratura o nel pavimento del nuraghe, che dovevano costituire il "tesoro" della comunità. Crogioli in pietra lavica, tra cui uno a forma di animale quadrupede, sono noti provenire da Ozieri, Ittireddu e Mores. Numerose sono inoltre le matrici di fusione che recano impressa l’impronta di asce, palette, falci, picchi, punte di lancia, rinvenute ad Ozieri, Ittireddu, Mores e Pattada.
È noto infine l’utilizzo della tecnica di fusione a "cera persa" per i bronzi figurati.
Nella figura modellata con la cera e rivestita di argilla era colato il metallo fuso che ne recepiva la forma. Bronzi figurati, armi, oggetti di uso, di ornamento e di culto ci offrono uno spaccato della società nuragica di questo territorio, delle attività economiche e soprattutto delle relazioni dirette o mediate con i popoli del Mediterraneo (Micenei, Ciprioti, Etruschi e Fenici), inquadrabili entro un arco temporale compreso fra la media Età del bronzo e la prima Età del ferro (XV-VII secolo a.C.).
Intensa e ricca è stata la presenza romana (secc. III a.C.-V d.C.) che tante testimonianze ha lasciato in diversi campi, da quello economico, a quello sociale, a quello militare. La vicina fortezza romana di Castro ne è l’esempio più insigne.
Se si escludono Luguido (Madonna di Castro), Hafa (Mores) e Caput Tyrsi, centri legati alla viabilità, ossia semplici stationes (stazioni con locande e stalle per il ricovero dei cavalli), e almeno nel primo caso ad uno stanziamento militare, ma che comunque erano di dimensioni assai ridotte, nel Logudoro dovevano esistere solamente piccolissimi insediamenti, legati allo sfruttamento agrario del territorio. Non si conosce l’esistenza di ville rustiche, che comunque dobbiamo immaginare presenti almeno nelle regioni più fertili, quelle pianeggianti adatte ad un intenso sfruttamento cerealicolo. All’esistenza di insediamenti connessi alle attività produttive può riferirsi ad esempio il complesso di Olensas, presso Ittireddu, un singolare monumento costituito da dieci cisterne di forma globulare scavate nel banco trachitico affiorante; accanto si notano una serie di canalette divergenti dalle imboccature circolari delle cisterne. Si pensa ad un loro uso come deposito di derrate alimentari solide (cereali o olive) o, più probabilmente, ad una funzione legata all’olivicoltura. A conferma dell’ipotesi che esse fossero destinate al contenimento dell’olio si nota la presenza di alcune vasche, sempre scavate nella roccia, che dovevano essere utilizzate per la decantazione. Sempre ad impianti produttivi possono riferirsi le cisterne scavate nella roccia presso Lavrudu, in agro di Ittireddu, o le vaschette rinvenute presso antiche strutture nelle campagne di Ozieri, in una località dal significativo nome di Ruinas (rovine).
Piccole necropoli, individuate in diversi siti, sono certamente da porre in relazione a questi microinsediamenti, talvolta legati a nuclei monofamiliari, e alla stessa dinamica insediativa può legarsi il riutilizzo dei nuraghi, evidenziato in più casi dal ritrovamento di materiali di età romana e altomedievale. Al di là dell’insediamento rurale e delle stationes stradali dovevano essere ampiamente sviluppate le forme di stanziamento vicaniche di tradizione protostorica. La documentazione epigrafica specifica le aree prossime del popolo dei Balari, ricordato tra i celeberrimi populi (le popolazioni più note) della Sardinia da Plinio il Vecchio nel I sec. d.C. oltreché da Sallustio e da Livio. Il testo documenta la disposizione, stabilita dal Prefetto della Sardinia, agli inizi del I sec. d.C., di porre i termini (ossia i cippi di confine) che delimitassero il territorio dei Balari, affinché l’indomita tribù sarda non sconfinasse.
Fonti di diverso genere testimoniano come in età romana la Sardegna nord fosse percorsa da una fitta rete di strade, che collegavano tra loro i vari insediamenti ubicati in questa porzione territoriale e gli altri centri abitati dell’Isola. Una delle vie principali si dirigeva verso Olbia, deviando dall’asse di collegamento tra Carales (Cagliari) e Turris (Porto Torres); le fonti scritte indicano che questa attraversava i centri di Hafa, localizzata presso Mores, e Luguido, in prossimità di Castro di Oschiri, ma il suo tracciato è meglio precisato dalle fonti archeologiche ed epigrafiche. Queste ultime sono rappresentate dai cippi in pietra in cui erano incise le miglia di distanza dalla località di partenza, Olbia o Carales, insieme ad altre indicazioni. Dopo i miliari rinvenuti nei territorio di Mores, la prima testimonianza monumentale è rappresentata dal Ponte Ezzu, ubicato al confine tra le campagne di Mores e Ittireddu, in località Isola di Don Gavino.
Del ponte, che cavalcava il Riu Mannu, rimangono oggi solamente due delle tre arcate originarie, di differenti dimensioni. Il ponte era costruito in opera cementizia, con un rivestimento in blocchi squadrati di basalto nero. Presso le fondazioni sono ancora visibili i rostri frangicorrente, mentre è completamente scomparsa la parte superiore del ponte con il coronamento e il parapetto.
La strada attraversava successivamente il territorio di Ozieri, come attesta ancora il ritrovamento di miliari e altri significativi monumenti: il ponte di Iscia Ulumu in regione San Luca, il Pont’Ezzu in località Punta di Navole e il ponte di Badu Sa Femina Manna. Del primo rimangono solo le strutture di fondazione dei piloni, mentre ben conservato, grazie anche ai numerosi restauri e alla continuità d’uso, è il Pont’Ezzu sul Rio Mannu; il ponte, lungo oltre 90 metri con sei arcate decrescenti, ha un paramento murario in conci squadrati, che rivestono un conglomerato cementizio. A sei arcate era anche il terzo ponte, del quale si conservano solamente le pile in conglomerato cementizio rivestito da blocchi trachitici. Raggiunta Luguido presso Santa Maria di Castro, a pochi chilometri da Oschiri, dove tra l’altro fino a pochi decenni orsono potevano ancora scorgersi i resti di un altro ponte, la via proseguiva attraversando le campagne di Berchidda e Telti, come attestano altri miliari, per giungere finalmente ad Olbia. Nel territorio passava anche un’altra importante via, che collegava Carales a Olbia attraversando le impervie regioni montuose delle Barbagie.
Una delle stazioni nominate dalle fonti è Caput Tyrsi, le "sorgenti del fiume Tirso", localizzabile con probabilità in località Sos Muros di Buddusò. Forse la via, presso Luguido, si ricongiungeva all’altra strada di cui si è precedentemente parlato. A questi assi viari principali dovevano aggiungersi altre strade secondarie, come quella di cui rimane traccia in località Badu’e Crasta, nelle campagne di Pattada, dove si osserva un tratto della strada romana in cui sono evidenti i solchi dei carri.
Nei primi secoli la diffusione del Cristianesimo, partendo dai centri urbani quasi esclusivamente ubicati sulle coste, si diffuse nei territori interni dell’Isola passando per le più importanti vie di comunicazione. Ciò dovette verificarsi anche nel territorio in esame, dove i luoghi di culto attualmente conosciuti sono legati a strutture ipogee, probabilmente da mettere in relazione con il fenomeno del monachesimo di tipo orientale, eremitico o più probabilmente organizzato in laure. Questi insediamenti monastici erano composti da piccole celle sparse ma non distanti tra loro, nelle quali i monaci vivevano in eremitaggio per gran parte del tempo, pur facendo riferimento a luoghi di culto comuni.
È soprattutto nel Monte Santo (Mores), ricco di anfratti naturali e di ipogei artificiali di età preistorica, che il fenomeno sembra attestarsi con particolare evidenza; lo stesso nome dato al monte sottolinea il particolare carattere "sacro" del territorio, che nel pieno medioevo verrà occupato da insediamenti monastici di regola benedettina.
Il monumento più interessante è senza dubbio Su Crastu de Santu Eliseu (la roccia di Sant’Eliseo), un grosso masso sito ai piedi del Monte Santo, entro il quale è stata ricavata una serie articolata di ambienti: un vano di ingresso trapezoidale, con incavi e ripiani di varia dimensione, da cui si accede ad un ampio vano centrale, sempre trapezoidale, al centro del quale è scavato un bacile, un ambiente di piccole dimensioni, con una piccola finestra e un altro vano quadrangolare. Entro quest’ultimo, illuminato da una finestra, sono ricavati nella roccia sedili e altri piani, forse semplici giacigli. In un ambiente alcuni simboli cristiani incisi nella roccia sembrano suggerire una funzione abitativa, mentre secondo altre ipotesi gli elementi strutturali indicano per il monumento una funzione culturale, comunque legata alla presenza di monaci. Allo stesso utilizzo possano riferirsi anche S’Istampa ’e Sas Fadas e S’Istampa ’e Santu Marcu. Quest’ultima è una grotta (istampa nel dialetto locale) raggiungibile da una terrazza naturale situata sul Monte Lachesos, preceduta da un corridoio gradato. La grotta, evidentemente artificiale almeno in parte, ha pianta circolare ampliata in forma ellittica da un sedile, sul quale si apre un ampio nicchione, in asse con l’ingresso. Come Su Crastu de Santu Eliseu, anche questo ipogeo potrebbe essere collegato alla presenza di monaci eremiti.
L’arte cristianaLa storia dell’arte cristiana nel Logudoro si può ricondurre al grande momento delle chiese romaniche medievali; tuttavia, anche i capolavori e i "Maestri" del Cinquecento, da una parte, e alcune strutture architettoniche ottocentesche, dall’altra, concorrono a completare l’itinerario ideale attraverso i luoghi sacri.
Il medioevo dei secoli XI-XIII: fu allora che, in una Sardegna divisa in quattro territori signorili autonomi, in qualche misura ormai indipendenti dalla stessa Bisanzio da cui li avevano separati la vastità del Mediterraneo e l’ingombrante presenza degli arabi in tutto il ’mare interno’, cominciarono a penetrare Pisa e Genova, le due grandi repubbliche marinare del Tirreno. Arrivavano non solo con i loro mercanti ma anche con le stesse famiglie più ricche e più potenti: i Visconti, i Da Capraia, i Massa, i Donoratico della Gherardesca pisani, i Doria e i Malaspina genovesi si imparentarono con le famiglie dei "giudici" sardi e pian piano arrivarono a sostituirle.
Alla fine del Duecento tre dei quattro "giudicati" sardi (quelli di Torres, di Gallura e di Cagliari) erano già scomparsi: il quarto, quello di Arborea, sarebbe sopravvissuto sino ai primi decenni del Quattrocento, resistendo attraverso una lunga guerra alla conquista catalano-aragonese, che era iniziata nel 1323.
"Giudici" e "giudicati" sono i nomi con i quali erano conosciuti questi territori e i loro signori (in sardo jùdiches), che avevano sviluppato in una Sardegna isolata e quasi abbandonata a se stessa un’organizzazione politico-istituzionale che vedeva l’isola, a partire dall’VIII-IX secolo d.C., distribuita fra quelli che erano forse, all’origine, quattro rami di una stessa famiglia di potenti funzionari bizantini residenti a Cagliari. Un problema storico di soluzione tutt’altro che facile, ma che rimanda a un’età vagheggiata dal popolo sardo come un tempo di autonomia e di libertà.
Furono i "giudici" che fecero arrivare in Sardegna i monaci (in particolare i Benedettini, i Camaldolesi e i Cistercensi) che si posero a guida delle ’lunghe fabbriche’ delle grandi basiliche, spesso collocate al centro di campagne un tempo deserte e desolate e che i monaci decisero di bonificare e, quindi, popolare attirandovi nuovi abitatori. Sembra che proprio sotto la spinta dei monaci anche in Sardegna l’anno Mille abbia segnato quella svolta che un tempo si credeva avesse marcato in tutta Europa un risveglio pieno di ottimismo e di vitalità, che favorì non soltanto i commerci ma anche lo sviluppo delle arti e delle manifestazioni della fede.
L’architettura del medioevo sardo è rappresentata soprattutto dallo stile romanico, nella gran parte dei casi da quella variante del romanico che fu il romanico pisano. Il territorio ospita due dei capolavori assoluti del romanico sardo, collocati, per di più, a poche centinaia di metri (in linea d’aria, però) l’uno dall’altro. Sono due chiese che svolsero un ruolo fondamentale nella storia di questa parte del Monte Acuto: Nostra Signora del Regno, ad Àrdara, era in realtà la cappella palatina dei "giudici" di Torres che avevano qui la sede della loro capitale; S. Antioco di Bisarcio fu la chiesa cattedrale dell’antico vescovado di Bisarcio, trasferito soltanto in età moderna a Ozieri, quando la località dove sorgeva la chiesa venne abbandonata dai suoi abitanti.
Nostra Signora del Regno deve il suo nome proprio al fatto di essere stata la chiesa del centro sede del "regno" (su rennu) degli antichi signori di Logudoro. Oggi si trova all’estremo bordo del piccolo abitato, e guarda da un alto poggio sulla pianura sottostante: ma anche questa posizione isolata e dominante accresce fascino alla costruzione, che è tutta di nerissimi conci di trachite: "ferrigna", come è stata descritta da qualcuno. Forse per questo la facciata è eccezionalmente orientata a sud, in modo da essere più direttamente illuminata dal sole. Scandita da quattro brevi lesene, ha una sua compattezza che è anch’essa, in qualche misura, un’eccezione rispetto al modello delle chiese romaniche di Sardegna, in cui elementi decorativi come archetti e rosoni sono chiamati ad alleggerirne la forza. Ma proprio questa era probabilmente l’impressione che il costruttore e i "giudici" committenti volevano conferirle, il senso di una chiesa-fortezza, capace di esprimere la forza e la potenza dei signori che avevano lì, a pochi passi, il loro castello (oggi spesso ridotto a pochi ruderi non facilmente riconoscibili).
Il severo interno, di tipo basilicale, ha la navata centrale coperta da travature a vista; le colonne che la dividono dalle navate minori furono dipinte nel Seicento con una serie di immagini di apostoli e di dottori della Chiesa, che danno vivacità all’interno, decorato anche con un bel pulpito di legno intarsiato e dipinto di grande effetto. Nell’abside, dopo diversi anni di assenza dovuti a un lungo restauro romano, è tornato da qualche anno il retablo maggiore, la grande tavola d’altare che occupa l’intero spazio dell’abside.
La basilica, che sorge su un breve rialzo nella piana di Chilivani, è forse opera delle stesse maestranze che, dopo aver costruito Nostra Signora del Regno e, scendendo al sud dell’isola, la chiesa di S. Giusta presso Oristano, tornarono a realizzare, guidate forse da architetti di cultura lombarda o francese, S. Antioco: sui resti di una chiesa distrutta da un incendio, che esisteva prima del 1090, fu impiantata l’attuale costruzione, consacrata intorno al 1150-60, una cinquantina d’anni dopo la consacrazione di Nostra Signora del Regno (1107). Prima del Duecento fu aggiunto l’avancorpo che caratterizza la facciata, compartita da questa architettura mossa e fantasiosa.
A fianco si leva il poderoso resto del campanile, mozzato diversi secoli fa da un fulmine e non più ricostruito. I conci in trachite di due diverse tonalità (lo scuro e il rossastro) danno risalto a tutti gli elementi decorativi di cui sono ricche la facciata e le possenti fiancate. Nel severo interno la statua del santo, in legno dipinto, è tuttora oggetto di devozione popolare.
Di impianto bizantino rielaborato nel tempo è invece la piccola e interessante Chiesa di Santa Croce nel cuore del centro storico di Ittireddu. Tutto il territorio, peraltro, è punteggiato di piccole e grandi chiese romaniche.
La più bella è la chiesa campestre con il santuario di Nostra Signora di Castro, che si trova presso Òschiri (1174), ma molte altre sono interessanti: fra queste S. Maria di Coros, situata alla periferia di Tula, e le chiese campestri di Nostra Signora di Otti, a pochi km da Òschiri, con il tipico campaniletto a vela, S. Nicola di Bùtule, presso Ozieri, costruita tra il Duecento e il Trecento in stile romanico-gotico, e S. Giacomo nella campagna di Ittireddu.
Uno dei capolavori della storia dell’arte isolana è conservato a Ozieri, nella cattedrale: è il polittico della Madonna di Loreto, opera di un pittore conosciuto con il nome di Maestro di Ozieri, che fu attivo in questa zona (le parti di un altro grande polittico dedicato a S. Elena si trovano nella parrocchiale della vicina Benetutti) nella prima metà del Cinquecento o, secondo altri studiosi, verso la fine del secolo: la discussione verte intorno al momento in cui giunsero in Sardegna gli echi del primo manierismo italiano, di cui il polittico ozierese è fortemente segnato, con una leggerezza di segni e di colori che contrasta vivamente con la forza e la ricchezza della pittura di influsso catalano (o comunque nordico) che vibra nel retablo di Àrdara.
Il retablo è una grande macchina pittorica, che ospita in uno spazio di diverse decine di metri quadrati pitture organizzate in una complessa architettura. La parola retablo deriverebbe dal latino retrotabula altaris, perché la tavola era destinata a essere collocata alle spalle dell’altare.
L’opera di maggiore rilievo artistico non solo della cattedrale ma della pittura del Cinquecento isolano è il retablo del Maestro di Ozieri giunto ai nostri giorni completo. Ossia composto dalla tavola centrale della Madonna di Loreto, dell’Annunciazione, della Visitazione, della Crocifissione, nonché da tre scene della predella: l’Ecce homo, e due coppie di dottori della Chiesa. Non si insiste sulla possibile datazione in quanto ampi sono i dubbi e le opinioni fra gli studiosi; si preferisce notare che l’artista ha desunto ispirazione dalle stampe tanto di Dürer (Visitazione), quanto di Tiziano (Annunciazione) giunte a lui in un periodo di loro ampia diffusione, senza escludere Cesare da Sesto.
Gli altari lignei dorati e policromati sono una dominante dell'arte del Settecento in tutta la Sardegna. Il più notevole per l’importanza nel territorio si trova ad Ozieri nella chiesa di S. Francesco, attestato da carteggi dai quali si apprende non solo della magnificenza di quello maggiore, che si staglia nella zona presbiteriale, ma di diversi altri, scomparsi, che abbellirono la chiesa sino alla seconda metà dell’Ottocento. L’incuria finì per ridurli in condizioni non più recuperabili, privando la chiesa di un patrimonio di inestimabile valore artistico e culturale.
Di dimensioni più contenute è l’altare di fine del Seicento o degli inizi del Settecento con al centro della nicchia la Madonna titolare della chiesa di Nostra Signora di Castro nella località omonima. Restaurato negli anni Novanta è attualmente posto ad ornamento assai suggestivo del monumento romanico.
Anche Pattada presenta due altari lignei con variazioni sempre sulla stessa impostazione del retablo ligneo, con peculiarità risalenti al secolo XVIII.
Il centro di Nughedu S. Nicolò annovera un’altra testimonianza che riafferma la diffusione di questi arredi che dovevano essere realizzati da botteghe del Sassarese sul modello, in chiave minore, di quelli esistenti nel capoluogo. Sassari infatti detenne il primato di maestri artigiani e di doratori l’abilità dei quali colpisce i visitatori per la magnificenza dell’intaglio e per la giocosità della policromia arricchita dall’oro zecchino.
Nel corso delle mie letture e studi sulla storia sarda, mi sono spesso imbattuto nelle varie interpretazioni degli studiosi sull’origine e significato del toponimo “logudoro”, esse però non mi hanno mai del tutto convinto, anzi, mi hanno indotto a ricercarne la reale origine, o meglio, quella che a me pare la più semplice dal punto di vista linguistico.
Il Logudoro, come molti ben sanno, è una regione storico-geografica della Sardegna nord-occidentale, che diede il nome all’antico Regno giudicale di Torres o Logudoro.
Nel corso degli anni sono state avanzate varie possibili interpretazioni che vogliono il toponimo “logudoro” quale contrazione derivante alternativamente da: “Logu de Torres”, la più accreditata e fatta propria dal Prof. Francesco Cesare Casula, che nel suo libro: Breve storia di Sardegna (Delfino editore, Sassari 1994) scrive: «[…] il regno o “giudicato” di Torres (chiamato anche Logudoro per contrazione di Logu de Torres = Logu de Tore(s)> Logu de Dore>Logudore>Logudoro) […]».
Accreditate sono inoltre le diciture “Logu de Oro”, probabilmente perché il territorio logudorese in giugno appare dorato di grano, ed anche “Logu de Doria” in virtù del plurisecolare stanziamento della famiglia di mercanti e armatori genovesi.
Seppure di contrazione si tratta, nessuna di esse, a mio modesto parere, coglie nel segno.
Altri studiosi hanno avanzato una ulteriore interpretazione del toponimo che deriverebbe dal famoso insediamento romano di LUGUDONE o LUQUIDO, detto anche CASTRA, identificato generalmente con le rovine romane presso N.S. Signora di Castro, vicino ad Oschiri cioè in pieno Logudoro. La stazione romana, nominata dall'Itinerarium Antonini e da altri testi di epoca tardo-imperiale, è stata inoltre messa in relazione con il popolo dei "luquidonensi" menzionato da Tolomeo fra le popolazioni della Sardegna centro-settentrionale.
Il Prof. Massimo Pittau, in particolare, nel suo ben documentato sito internet (http://web.tiscali.it/pittau/Sardo/...d_testo.html) sostiene altresì, in maniera per me molto suggestiva, che: «9a. Sul tracciato di strada che andava da Tibulae e Caralis risulta come seconda mansione Luguidunec, Lugudunec, Lugudonec, Luguinec, in cui è molto verosimile la divisione che è stata prospettata di Luguidone c(astro). Molto probabilmente dal nome di questa mansione, che richiama il già visto Portu(s) Liguidonis, è derivato il nome della subregione Logudoro /10/ (vedi 12b). Circa poi la esatta individuazione della mansione, una volta accertato che Tibulae era a Castelsardo, è da escludersi che Luguidone c(astro) sia da individuare con Castra presso Oschiri, mentre è molto meglio identificarlo con Ploaghe, il quale, probabilmente in epoca bizantina, mutò quel suo nome originario /11/.» Ed anche: «12b. Loukouidonénsioi sono gli abitanti di Luguidone (Ploaghe) dell'Itinerario di Antonino (9a). Dal punto di vista strettamente linguistico i Loukouidonénsioi sono gli antenati degli odierni Logudoresos.»
Venendo alla mia interpretazione del toponimo, rilevo che in alcuni testi di vari autori, i quali si rifanno a cronache ben più antiche, in particolare il “Libellus Iudicum Turritanorum” cronaca sarda medievale del XIII secolo d. C., il “Condaghe di San Gavino” e quelle riguardanti il ritrovamento dei corpi dei Santi Martiri turritani Gavino, Proto e Gianuario e della loro traslazione nella basilica dell’attuale Porto Torres, nelle quali viene riportato il nome del Regno giudicale che vide lo svolgersi di queste vicende.
Il B.R. Motzo, nel suo: La Passione dei ss. Gavino, Proto e Gianuario (Cagliari, 1927) ad esempio riporta che nella prima donazione del Judike turritano a Montecassino, il territorio su cui regnarono Comita prima e Barisone poi, viene definito: «[…] renno qui dicitur Ore […]».
Giovanni Arca nel: De Sanctis Sardiniae, opera cinquecentesca, a proposito dell’Inventio delle reliquie dei martiri turritani, scrive che: «[...] factum est ut Comita quidam vir sanctissimus super ambos locos scilicet Horim et Arboream ad imperandum iudex ordinaretur [...]».
Il G. Roscio Ortino, nel suo: Triumphus Martyrium in Templo Domini Stephani Caelii Montis (Roma, 1589) a proposito sempre dei martiri turritani, riporta: «[...] Regnum Lociaurei volgo loguduri [...]».
Sempre relativamente alla donazione a Montecassino, apprendo ulteriormente da una mia recente lettura (a cura di G. LUPINU, R. TURTAS, Pregare in sardo–Scritti su Chiesa e Lingua in Sardegna, Cuec, Cagliari 2006) che: «[…] Lo scriba che redasse il testo della prima donazione fatta nel 1065 dal “rennante domino Barossone e nipote eius donno Mariano in renno quo dicitur Ore” (cioè nel giudicato di Logudoro) […]».
Per concludere, nell’antico Condaghe di S. Pietro di Silki, scheda 20, si scrive in lingua logudorese medievale: «[…] ccun boluntate dessu donnu meu iudike Gunnari, e dessu fiiu iudike Barusone, e dessos frates, e dessos maiorales de Locudore, dandem’isse paragula de renobarelu su condake».
Da tutto ciò si evince che il toponimo dal quale ha tratto nome il Regno giudicale, o Logu, risulta essere costituito in origine dal vocabolo: - Ur -, ossia un “relitto del sostrato nuragico” (espressione mutuata dal Prof. M. Pittau) del quale si è persa l’originaria etimologia. Lo stesso, nel corso dei secoli, ha subito un processo di latinizzazione grafica che l’ha progressivamente mutato in - Ure(i) -, - Ore(i) - od – Horim -, dal quale si arriva facilmente e senza alcuno sforzo all’attuale Logudoro:
Locum Ur? > Locu de Ure > Locu de Ore > Logu d’Ore > Logu Dore > Logudore > Logudoro.
Con lo scorrere dei secoli il nome del Regno (Logu de Ure/Ore) si identificò anche con quello della sua prima capitale Turres, erede dell’antica Turris Libysonis (o Bisleonis), divenendo Giudicato di Turres o Logudore, senza alcuna attinenza, dunque, tra “Turres” e “logudore” che furono sempre ben distinti.
Questo relitto del sostrato nuragico – Ur - è ben presente, quale prefisso, nella toponomastica sarda dei Condaghes, preziosissime fonti, dove riscontriamo vari toponimi di ville/biddas (in gran parte estinti) della Sardegna settentrionale con il suddetto prefisso: Urieke, Uri, Urune, Uruspe, Urule, Urra, Uralosso, Urrato, Urguru ecc., tutti afferenti all’antico Giudicato turritano.
Inoltre una delle antiche Curadorias (o parti) di quel Regno, quella di Dore (Orotelli), ha conservato nel proprio nome originario il ricordo dell’antico Regno al quale era legata dal punto di vista amministrativo: “d’Ore”, ossia appartenente al Giudicato di Ore.
Come accennato sopra l’etimologia del relitto prelatino è andata perduta, anche se alcuni studiosi propendono per un suo legame con la presenza in loco di acqua sorgiva. Ritengo comunque che la ricerca dell’esatta etimologia vada approfondita ancor di più.
Un antico racconto popolare sardo: “La leggenda di Don Altare”, riportato nel libro della professoressa Dolores Turchi, Leggende e racconti popolari della Sardegna, (Roma 1984, pag. 197) e attinto da: G. Sanna, La leggenda di Don Altare, estratto dall’Archivio per le tradizioni popolari, vol. XVIII, 1899; ebbene, in questo racconto che parla di un antico e potente re, Don Altare, appunto, che cade in battaglia in seguito ad uno scontro con i suoi nemici, non facendo rientro al suo castello nel Montiferru, la balia del suo figliolo, avendo compreso il motivo del ritardo del re, dall’alto delle mura, canta una ninna nanna affinché il figlio del sovrano si addormenti:
Anninnia anninnare,
mortu an ‘a Don Altare!
Anninnia anninnore,
mortu an su re ‘e Ore!
(…)
(Trad.: Ninna nanna ninna nanna, hanno ucciso Don Altare! Ninna nanna ninna nanna, hanno ucciso il re di Ore!).
Dunque si cita inequivocabilmente un sovrano dell’antico regno di Ore; anche se il nome di Don Altare, si rifà probabilmente a Don Artale de Alagon y Arborea, figlio dell’ultimo marchese di Oristano Don Leonardo de Alagon y Arborea, caduto valorosamente nel corso della tristemente famosa Battaglia di Macomer del 1478, in uno degli ultimi aneliti di libertà del popolo sardo.
In seguito alla cacciata dei mori di Mugiâhid (Museto), principe musulmano di Denia, dalla Sardegna, nell’ XI secolo d. C., alla quale parteciparono, come riportano le cronache, anche i genovesi della repubblica marinara, alcuni mercanti e navigatori di origine ligure si stanziarono in quei secoli nella Sardegna nord-occidentale, assumendo il cognome dinastico dal luogo che elessero a nuova dimora, ossia il Regno giudicale di Ure(i) /Ore(i).
Erano i famosi de Auria (de Uri) o Doria (de Ori), conosciuti con questo appellativo a Genova perché provenienti dal Giudicato del nord Sardegna, nel quale si erano stabiliti per i loro commerci ed in seguito insignoritisi, attraverso legami matrimoniali con i Giudici turritani, di alcune curatorie dell’estinto Giudicato.
E’ interessante notare, infatti, come il cognome De Auria/Doria non compaia a Genova prima del XIII secolo, epoca nella quale i mercanti e armatori liguri già si erano insediati in Sardegna.
Ad avvalorare la tesi sull’origine del toponimo “logudoro”, abbiamo un’ulteriore prova relativa al cognome sardo: “Dore”, a tutt’oggi di etimologia incerta; il quale, secondo le mie considerazione, è da ricondurre a quella vastissima casistica di antroponimi sardi di estrazione toponomastica. Infatti il cognome venne sicuramente attribuito a persone originarie dell’antico giudicato di Ore/Ure (Torres-Logudoro).
A comprova, il cognome è ancora oggi in massima parte presente nei territori storici dell’antico Giudicato della Sardegna nord-occidentale.
In base alle varie grafie del cognome presenti nei Condaghes abbiamo:
DE ORE > D’ORE > DORE
Giuseppe Ruiu